Le bombe pedagogiche.
Il 19 luglio 1943 in due ondate successive 500 bombardieri americani colpirono duramente Roma. Sganciarono mille tonnellate di esplosivo. Circa duemila vittime. Lo sgomento fu enorme. La guerra non risparmiava neppure la Città Eterna. In cuor loro milioni di italiani dissero quello che i giornali ancora succubi del regime non scrissero ma è nella Costituzione vigente: “L’Italia ripudia la guerra…”.
Qualcuno ancora ripete che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo il 25 luglio 1943 fu un “colpo di Stato” di Vittorio Emanuele III. Nel 1950 lo affermò Luigi Salvatorelli, che imputò al Re, quali gesti eversivi, anche l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra il 24 maggio 1915 e l’incarico a Mussolini di formare il governo il 30 ottobre 1922. Ottant’anni dopo quella settimana decisiva per le sorti dell’Italia occorre rispondere a tre domande. Il Re agì motu proprio o al traino dei gerarchi fascisti che il 25 luglio lo esortarono in Gran Consiglio a esercitare i poteri statutari? Quando decise di sostituire Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio Vittorio Emanuele III conosceva i piani degli anglo-americani? Qual era il raggio effettivo della libertà d’azione del sovrano?
Il Re isolato e un duce che volle la guerra a basso costo
Dal 1938, assediato dalle correnti repubblicane da sempre serpeggianti nel Partito nazionale fascista e convergenti con il nazionalsocialismo di Hitler, completo di antisemitismo, il Re era sempre più isolato. Per Statuto non poteva rifiutare la firma delle leggi approvate dalle Camere. Anche in Senato, pur di nomina regia e vitalizio, gli avversari del regime erano ormai una pattuglia di “irriducibili” (militari, diplomatici e spiriti liberali quale Luigi Einaudi), “schedati” dal presidente Giacomo Suardo, che liquidava il Maresciallo Enrico Caviglia come “una carogna”.
Nel marzo 1940 Mussolini fissò la condotta dell’Italia. Il 10 il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop recò a Roma la richiesta di Hitler: schierarsi a fianco della Germania in procinto di scatenare l’offensiva contro Francia e Gran Bretagna. Mussolini rimase scettico. Spiegò al ministro degli Esteri del Reich che era disposto a una “guerra parallela”. Rientrato a Berlino, Ribbentrop chiese a Mussolini un incontro con Hitler al Brennero. Il 14 marzo il ministro della Real Casa, duca Pietro d’Acquarone, poco uso alle confidenze, sondò Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del “duce”: Vittorio Emanuele III sentiva “che da un momento all’altro potrebbe presentarsi per lui la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose; è pronto a farlo ed anche con la più netta energia”. Il Re, gli disse, nutriva nei suoi confronti “più che benevolenza, un vero e proprio affetto e molta fiducia”. Non per caso lo aveva insignito del Collare della SS. Annunziata elevandolo a “cugino del Re”, come già aveva fatto con suo padre, Costanzo. D’Acquarone avrebbe voluto spingersi oltre ma constatò che Galeazzo Ciano preferiva “tenersi sulle generali”. Il Re, dunque, non disponeva di alcuna alternativa parlamentare e politica al duce del fascismo.
Per fatalità e necessità il regno d’Italia, costituito nel 1861, aveva concorso alla spartizione degli spazi extraeuropei, dall’Eritrea alla Somalia, dalla spedizione contro la Cina all’annessione di Libia e Dodecanneso. Era la geografia a dettarle la storia. Ancora una volta era al bivio, alleata con molti dubbi e persino controvoglia con il nemico della prima guerra mondiale e contro i suoi alleati storici: Francia e Gran Bretagna.
Molto si disse e ancora si scrive sul carteggio corso nella primavera del 1940 tra il presidente della Repubblica francese Albert Lebrun e Vittorio Emanuele III e tra Mussolini e il premier britannico Winston Churchill, primo ministro dal 10 maggio. Sono note le lettere del presidente degli USA Franklin D. Roosevelt di esortazione a Vittorio Emanuele a tenere l’Italia al di fuori del conflitto, come ricorda GianPaolo Ferraioli in Lineamenti delle relazioni tra Italia e Stati Uniti durante il regno di Vittorio Emanuele III, 1900-1946 (ed. BastogiLibri). Altrettanto risaputo è l’appello alla pace delle regine dei Paesi neutrali su impulso della Regina Elena. Nel febbraio 1985 Giovanni Artieri asserì di aver letto nelle Memorie del Re documenti comprovanti i suoi veri intendimenti. Noto per la dichiarata simpatia nei confronti di Casa Savoia, Artieri escluse che nel “diario” si trovasse traccia delle 72 lettere scambiate tra Vittorio Emanuele III e Lebrun e della cui esistenza s’era fatto garante il colonnello Francesco Scoppola, vicino a Umberto II nell’esilio in Portogallo. Il colonnello aggiunse anzi d’aver ben scolpito nella memoria il passo di una missiva di re Vittorio al presidente francese. L’Italia sarebbe entrata in guerra non contro la Francia ma per sedere al tavolo della pace con funzione moderatrice filofrancese. Al termine delle operazioni, assicurò il re, “per aderire alle istanze, alle pressioni, ai desideri, alle sollecitazioni del mio popolo e alla luce del mio credo nella libertà” il capo del governo sarebbe stato sostituito. Come poi scrisse Salvatore Satta in De profundis (ed. Adelphi) per l’uomo tradizionale “la vittoria era il mantenimento e il rafforzamento del regime, la sconfitta era la libertà: ed egli era francamente per la libertà, e quindi per la sconfitta”. Solo la catastrofe avrebbe liberato l’Italia dalla cappa del regime.
Mussolini decise l’intervento senza chiedere il consenso del consiglio dei ministri (al quale il 4 giugno si limitò a dire che era l’ultimo “del tempo di pace”), né il voto dei due rami del Parlamento. Fece da sé. Alla stretta finale, come poi ricordò il principe Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, in un’intervista aspramente criticata da chi se ne sentì chiamato in causa, “nessuna personalità di rilievo si dichiarò apertamente e nettamente contraria all’intervento”. Se anche non fosse stato vincolato dallo Statuto, il Re non potè che assecondare le decisioni del capo dell’esecutivo, nella speranza che il conflitto terminasse presto.
Malgrado la magniloquenza bellicosa, il “piano di guerra” dell’Italia configurò una realtà di tutt’altro tenore. Esso infatti previde: “Fronte terrestre – Difensivo sulle Alpi occidentali. Nessuna iniziativa. Sorveglianza. Iniziativa solo nel caso […] improbabile di un completo collasso francese sotto l’attacco tedesco. Una occupazione della Corsica può essere contemplata, ma forse il gioco non ne vale la candela […]. A Oriente – verso la Jugoslavia, in un primo tempo, osservazione diffidente. Offensiva nel caso di un collasso di quello Stato, dovuto alla secessione, già in atto, dei croati. Fronte albanese – l’atteggiamento verso nord (Jugoslavia), sud (Grecia) è in relazione con quanto accadrà sul fronte orientale. Libia – difensiva verso la Tunisia quanto verso l’Egitto. L’idea di un’offensiva contro l’Egitto è da scartare, dopo la costituzione dell’esercito di Weygand. Egeo – difensiva. Etiopia: offensiva per garantire l’Eritrea e operazioni su Gedaref e Lassala, offensiva su Gibuti, difensiva e al caso controffensiva sul fronte del Kenya”.
Il “piano” mise a nudo la verità. Mussolini volle la guerra confidando di non doverla combattere. Puntava a sedere presto al tavolo della pace per trarre il massimo profitto da “alcune migliaia di morti”. Lo dichiarò a Badoglio che gli avanzava le ennesime riserve sull’opportunità dell’intervento.
Contrariamente alle speranze, tuttavia, la guerra non finì affatto con la resa della Francia. Ormai però l’Italia vi era impigliata senza possibilità di sgattaiolarne. Non rimase che andare avanti, sperare in un colpo di fortuna, di cui sono zeppi gli annali della storia, o prepararsi a “dare una diversa piega alle cose”, come il Re aveva invano ventilato a Ciano.
Verso la catastrofe
Nel corso del 1941 andò perduta l’intera Africa Orientale Italiana. Là i mezzi motorizzati non avevano pezzi di ricambio né scorte di pneumatici. Le riserve di carburante sarebbero bastate da tre a sei mesi, secondo il ritmo del loro impiego. L’armamento era modesto. Dopo eroica resistenza il viceré Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, dovette ordinare la resa a cospetto delle forze inglesi, nettamente superiori. Fu tradotto in campo di concentramento in Kenya, ove lo raggiunse il generale Nasi, a sua volta costretto alla resa il 28 novembre 1941. Il duca morì prigioniero il 3 marzo 1942. Fu sepolto nel cimitero militare di Nyeri, devastato dai fondamentalisti islamici (Vincenzo Meleca, Italiani in Africa Orientale, ed. Tracceperlameta, 2018).
Per l’Italia il conflitto volse al peggio anche nell’Africa settentrionale, dopo le forzate dimissioni del maresciallo Rodolfo Graziani e malgrado il soccorso recato dall’Afrika Korps agli ordini di Erwin Rommel.
Non andò meglio in teatri sempre più remoti dai confini del Paese. Dapprima con il Corpo di spedizione e poi con l’Armata italiana in Russia, Mussolini disperse ulteriormente le forze su spazi dilatati in vista di improbabili contropartite politiche. Era invece chiaro che ogni componente del tripartito Roma-Tokyo-Berlino combatteva per i propri interessi.
Aggrediti dal Giappone, gli Stati Uniti d’America entrarono in guerra il 7 dicembre 1941. Al traino dei suoi alleati, il governo italiano dichiarò guerra agli USA malgrado l’incolmabile disparità delle risorse e delle armi. Una decisione suicida. Tra fine ottobre e inizio novembre 1942 le forze dell’Asse furono sconfitte a E1 Alamein e arretrarono; l’8 novembre gli anglo-americani sbarcarono in Marocco e Algeria; l’indomani gli italo-germanici invasero la Francia di Vichy, ma nel frattempo, in dicembre, furono battuti sul fronte del Don e costretti alla tragica ritirata dal territorio sovietico.
Come salvare lo Stato?
Su pressione di Stalin, la conferenza interalleata di Casablanca (14-26 gennaio 1943) stabilì che per scampare al peggio (occupazione militare perpetua, frantumazione dello Stato, come avvenne in Germania…) i vinti dovevano implorare la “resa senza condizioni”: una “pace cartaginese”, estranea alla secolare tradizione europea. Dagli anglo-americani l’Urss fu riconosciuta paese “democratico”, benché il suo regime fosse molto lontano dai principi affermati dalla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 e dalla Dichiarazione di Washington del 1 gennaio 1941. Conscio di dover trovare una soluzione, Mussolini restò senza vie d’uscita, anche per il netto rifiuto di Hitler di privilegiare il Mediterraneo quale teatro bellico prioritario e/o di consentirgli un armistizio separato con l’URSS.
Nel marzo 1943 le grandi industrie dell’Italia settentrionale, caso unico nell’Europa in guerra, furono teatro di scioperi che chiedevano “pane e pace”, senza mettere in discussione né Mussolini né il regime. Sorpresi essi stessi dalla vastità dell’adesione alla protesta, niente affatto preparata e orchestrata da reti partitiche, anche gli esponenti dell’estrema sinistra (comunisti e socialisti, in fase di riorganizzazione) tramite loro esponenti di spicco fecero sapere alla Corona che sarebbero stati disponibili a un’azione comune se il re avesse rimosso Mussolini e rotto con la Germania.
Le prospettive di salvare la monarchia si facevano di anno in anno più precarie. Contattato da britannici, nel maggio 1942 Badoglio si disse convinto della sconfitta dell’Asse, dichiarò di “non essere più fedele a Casa Savoia” e di volere, “al momento giusto, prendere il potere e costituire un governo militare”. In passato era stato al centro o almeno punto di riferimento di fantasticherie poi dipinte quali cospirazioni volte a sostituire Mussolini con referenti del tutto ignoti all’opinione pubblica, come l’avvocato Carlo Aphel, uno dei tanti legali della Fiat, nell’ambito di un complotto deciso a imporre al re l’abdicazione, a suo figlio Umberto la rinuncia alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli Vittorio Emanuele con reggente sua madre, Maria José (Luciano Regolo, Così combattevamo il duce. L’impegno antifascista di Maria José di Savoia nell’archivio inedito dell’amica Sofia Jaccarino, Roma, Kogoi, 2013; Paolo Mieli, Il tribunale della storia, Milano, Rizzoli, 2021).
La via maestra del Re: i militari
Il 1° febbraio 1943 lo scenario mutò, sia pure di poco, a vantaggio della monarchia con la sostituzione al comando dello Stato maggiore generale di Ugo Cavallero con Vittorio Ambrosio, che già gli era subentrato alla testa dell’esercito (20 gennaio 1942). Questi si circondò di fedelissimi, come i generali Giuseppe Castellano e Azolino Hazon, dal 23 febbraio 1943 comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Alla sua improvvisa morte durante il bombardamento americano su Roma il 19 luglio, Hazon fu sostituito con il generale Angelo Cerica, devotissimo a Casa Savoia.
Dal canto suo, ritenendo illusoriamente che a risollevare le sorti delle armi potesse giovare un rinnovamento complessivo della compagine ministeriale e dei vertici del partito, da impegnare a fondo nella propaganda a favore del regime, tra il 6 e il 15 febbraio 1943 Mussolini assunse gli Esteri, rimuovendone Ciano, nominato ambasciatore presso la Santa Sede (sicché non si mosse da Roma) e varò un vortice di cambi al governo. Mise “in libertà” proprio i gerarchi più decisi a imboccare una strada diversa dalla guerra a oltranza a fianco della Germania di Hitler.
Il 25 marzo 1943 Vittorio Emanuele III conferì l’Ordine della SS. Annunziata a Dino Grandi, il 9 marzo 1937 creato conte di Mordano. In occasione della consegna del collare (Grandi scelse quello già indossato da Giolitti), il re gli fece capire che si attendeva un’iniziativa dal Gran consiglio quale “surrogato della Camera”. E questa maturò, in una situazione bellica generale e interna ulteriormente compromessa e, per di più, con una lentezza che indusse Vittorio Emanuele III a valersi esclusivamente di militari. Alla assoluta devozione alla monarchia essi univano determinazione, efficienza e la rara virtù del silenzio assoluto nella pianificazione, nell’aggiornamento e nella esecuzione del progetto volto a revocare Mussolini da capo del governo.
Il 12-13 maggio le armate italo-germaniche ripiegate dalla Libia in Tunisia si arresero agli anglo-americani. Giovanni Messe, massone, già aiutante di campo del Re, cedette per ultimo. Cadde prigioniero degli inglesi. Il 10 luglio gli “alleati” iniziarono lo sbarco in Sicilia. Avanzarono rapidamente malgrado la tenace resistenza di reparti italiani (230.000 uomini) e tedeschi (40.000). Il concorso della “mafia” è una delle tante leggende, confutate dai documenti. Gli alleati prevalsero per la netta superiorità dei loro mezzi e degli spietati metodi di combattimento. Il 19, dopo aver colpito pesantemente nel tempo quasi tutte le città più importanti d’Italia, incluse Torino, Genova, Cagliari…, bombardarono Roma. Fu un’azione devastante e sanguinosa, ma circoscritta, dimostrativa, pedagogica: per far capire che erano in grado di fare quel che volevano, quando e dove volevano, come confermarono il 15 febbraio 1944 quando distrussero l’abbazia di Montecassino. Papa Pio XII, recatosi tra la popolazione, venne lungamente applaudito. Minor calore fu riservato al Re, che erogò subito un milione di lire a sostegno delle vittime. Lo stesso giorno Mussolini incontrò Hitler a Feltre. Avrebbe voluto/potuto/dovuto esporre la necessità di armistizio separato con l’URSS, per portare il fronte del Mediterraneo al centro della strategia italo-germanica. Tornò a Roma a mani vuote. Hitler percepì la fragilità dell’alleato e approntò l’irruzione armata in Italia.
Il Re decise, senza conoscere i piani degli anglo-americani
Vittorio Emanuele III sentì l’urgenza di intervenire, anche a fronte dell’appello rivolto da Roosevelt agli italiani a scindere la loro sorte da quella di Mussolini e di Hitler. Approntò nei dettagli la revoca del duce del fascismo da capo del governo, la sua sostituzione con Badoglio e le misure per smantellare il regime di partito unico per mostrare la svolta dell’Italia. Non conosceva però le decisioni assunte dalle Nazioni Unite a Casablanca né che nella conferenza “Trident” (Washington, 12-25 maggio 1943) gli anglo-americani avevano già messo a punto l’operazione “Overlord”, cioè lo sbarco nella Francia nordoccidentale, previsto per il maggio 1944: obiettivo gigantesco al quale dedicare il massimo delle risorse belliche. Per gli americani il Mediterraneo, Italia compresa, da eliminare senza tanti scrupoli, era ormai un teatro secondario rispetto all’apertura di quel fronte e, ancor più, della guerra contro il Giappone.
In quel contesto, denso di incognite e in carenza di informazioni, su sollecitazione di Dino Grandi e Giuseppe Bottai da un canto e di Roberto Farinacci dall’altro, Mussolini convocò il Gran consiglio del fascismo per le ore 17 di sabato 24 luglio. Che cosa propose? Come rispose Mussolini? Come agì il Re? Sono interrogativi che meritano apposito approfondimento. Ne scriveremo domenica prossima.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Vittorio Emanuele III con il Maresciallo Pietro Badoglio, generali e alti ufficiali in Puglia (settembre 1943). Lo Stato è salvo. Inizia la Ricostruzione. Le Forze Armate, a cominciare dai Carabinieri, di cui il Gen. CA Tullio Del Sette parlerà al Convegno su “L’estate del Re: luglio-ottobre 1943” (Vicoforte, 7 ottobre, furono il pilastro della monarchia costituzionale. I generali Giuseppe Castellano e Giacomo Zanussi nell’estate 1943 svolsero anche delicate missioni diplomatiche, eludendo spionaggio e controspionaggio. Nel denso saggio, fresco di stampa, il conte Angelo Squarti Perla, clinico, araldista insigne e componente della Consulta dei senatori del Regno, denuncia “Le menzogne di chi scrive la storia” e nell’efficace sottotitolo ammonisce: “Seguitare a sputare su Casa Savoia è come sputare su noi stessi” (ed. Gambini, info@gambinieditore.it).
Dei bombardamenti anglo-americani sull’Italia, spesso strategicamente inutili ma dettati da scopi terroristici e dagli esiti drammatici, ha scritto Marco Patricelli in “L’Italia sotto le bombe. Guerra aerea e vita civile” (ed. Laterza). Si veda anche l’eloquente saggio di Giulio Vignoli “I 184 bimbi di Gorla. Un crimine degli Americani” (BastogiLibri).
Aldo A. Mola
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