Quando i Re celebrarono Mazzini
Il 13 marzo 1904, in vista del 1° Centenario della nascita di Giuseppe Mazzini (22 giugno 1905), Vittorio Emanuele III decretò l’Edizione Nazionale di tutti i suoi scritti, “solenne attestazione di riverenza e gratitudine dell’Italia risorta verso l’apostolo dell’unità”, al pari del suo monumento deliberato quindici anni prima, scoperto all’Aventino in Roma nel 1949. Presidente del Consiglio era l’austero Giovanni Giolitti. Controfirmarono Vittorio Emanuele Orlando, ministro della Pubblica istruzione, e Scipione Ronchetti (Grazia a Giustizia), antico iniziato nella loggia “La Ragione” di Milano. Nel 1961 i volumi, editi da Galeati di Imola a cura di Mario Menghini, erano già cento. Altri seguirono.
L’affermazione dell’uomo come soggetto di libertà nello Stato trionfò con le rivoluzioni di fine Settecento in America e in Europa, con l’avvento dell’idea di nazione e il nuovo cristianesimo, socialità fondata su fratellanza universale, dignità degli uomini ed emancipazione delle donne, rimaste in seconda fila col Codice napoleonico del 1804. La rivoluzione industriale fece sprizzare Energie nuove. Già Wolfgang Goethe aveva insegnato: “Grigia è la teoria”. L’idea va attuata o non vale. Hegel ribadì l’identità tra reale e razionale e viceversa. Se non si avvera, l’utopia ostacola il corso degli eventi e i suoi chierici vengono travolti dal tempo come “povera foglia frale”.
In quella cornice si collocò il dramma di Mazzini, cioè la sua presenza sulla scena storica. Per molti egli è il patriota che dedicò la vita all’Italia una, indipendente e repubblicana. Mazzini però volle essere molto di più. La Nuova Italia sarebbe sorta davvero con l’educazione del cittadino. Non solo. Indipendenza e unificazione nazionale per lui non si restringevano al caso italiano ma dovevano essere norma di un ordine universale, fondato su autodeterminazione delle nazioni ed emancipazione da ogni oppressione; avvento di fratellanza universale e spiritualità liberata dalle gerarchie ecclesiastiche, fatalmente volte a inaridire la fede in pratiche burocratiche. Mazzini credeva fermamente nell’immortalità dell’“anima”, nella reincarnazione, vagante nei Tempi, e nella comunione tra i viventi e gli angeli.
Concepì gradualmente il suo “credo”. Pubblicò Note autobiografiche ma non scrisse vere e proprie Memorie. La sua vita fondeva quotidianamente pensiero e azione al calor bianco di cospirazione, apostolato, reticolo fittissimo di rapporti segreti e iniziative alla luce del sole. La sua opera più famosa, I doveri dell’uomo, non è né un trattato né esposizione organica di un progetto politico. È il manifesto di una nuova umanità. Comprende pagine di alta letteratura, spiritualità e talvolta di perorazione e preghiera più che di dottrina politica. Perciò nel 1902 fu diffusa nelle scuole italiane su proposta del ministro della Pubblica istruzione, Nunzio Nasi, e per decreto di Vittorio Emanuele III. Omesse alcune frasi scomode, i Doveri sono incitamento al patriottismo e al civismo. Contrappongono l’idealismo al materialismo, la fratellanza agli interessi di classe, il sacrificio all’opportunismo.
Sull’esile corda della Storia
La vita di Mazzini fu scandita in diverse stagioni, fatte anche di dubbi e sconforti. Essa ebbe però una continuità. Fu una sorta di melodia, ora malinconica ora tragica, che ne accompagnò le molte fasi. Il motivo unitario furono la profezia e l’iniziazione. La madre, Maria Drago, lo educò all’amore per l’Italia e all’etica del sacrificio, nel solco dei grandi spiriti che nei secoli ne avevano dato l’esempio, da Dante a Ugo Foscolo. A sedici anni vide i liberali piemontesi, sconfitti nel 1821, in partenza da Genova per l’esilio. Con quelle premesse, a ventidue anni Mazzini venne iniziato alla Carboneria, associazione segreta impregnata di religiosità e di patriottismo. Arrestato su delazione (13 novembre 1830) e incarcerato a Savona, decise che iniziatismo e profetismo andavano collocati su basi più solide. Posto dinnanzi alla scelta tra confino ed esilio (18 gennaio 1831), scelse l’espatrio. Dopo un soggiorno a Ginevra e a Lione, fondò a Marsiglia l’associazione segreta “Giovine Italia”. Essa escluse chi contasse più di quarant’anni, cioè chi fosse nato prima della Convenzione repubblicana francese del 1792, assunta a spartiacque della storia come già intuito da Goethe. La Giovine Italia segnò una cesura generazionale. Un bene? Una forzatura? Per dar vita a un nuovo corso Mazzini ruppe il legame con quanti avevano vissuto l’età napoleonica e la restaurazione con tutte le loro contraddizioni, i compromessi, i tentativi di conciliare il vecchio e il nuovo, il rosso e il nero. L’affiliando giurava di volere l’Italia “una, indipendente, libera e repubblicana” e di prestare obbedienza totale. Il tradimento era punito con pene severe, incluse la morte e la damnatio memoriae.
Mazzini sublimò il suo rapporto con la famiglia originaria nell’appassionato carteggio con la madre. Non estraneo alle passioni naturali, da Giuditta Sidoli, a sua volta esule politica, vedova e già madre di quattro figli, ebbe un bimbo (Demostene Adolfo) che però non riconobbe e sempre trascurò. Preferì non sapere che morì di stenti. Non formò mai una famiglia propria, perché si sentiva votato a una missione universale.
I primi tentativi di attuare il programma della Giovine Italia ebbero esiti catastrofici. Molti associati furono scoperti, arrestati, torturati, condannati alla pena capitale. Uno tra gli amici più cari di Mazzini, Jacopo Ruffini, si uccise in carcere per non cedere agli interrogatori e rivelare i segreti della setta. Nel 1834 la costosa invasione della Savoia, organizzata per suscitare l’insurrezione generale nel regno di Sardegna, naufragò miseramente. A Genova il ventisettenne capitano di marina Giuseppe Garibaldi, che doveva agire in concomitanza, si trovò solo all’appuntamento con l’insurrezione e scampò riparando in Francia, inseguito da condanna a morte. Alla prova del fuoco Mazzini non resse. Si smarrì. Tuttavia, malgrado il cocente insuccesso, alzò il tiro con la fondazione della Giovine Europa. Il riscatto dell’Italia doveva accompagnarsi alla redenzione di tutte le nazioni oppresse. Rimase convinto che l’insurrezione e la proclamazione della repubblica anche in un solo villaggio avrebbe scatenato la rivoluzione generale: illusione che costò pesanti sacrifici ed esasperò la contrapposizione tra mazziniani e moderati, bollati come codardi.
Costretto a migrare dalla Svizzera alla Francia, ora arrestato ora espulso, nel 1837 Mazzini approdò a Londra. Dopo la “tempesta del dubbio”, una breve stagione di angoscia per i tanti fallimenti pratici, accentuò l’aspetto profetico della sua missione. Fondò il periodico “L’apostolato popolare” per educare, arginare il materialismo dilagante, la riduzione dell’uomo a profitto, sia come sfruttamento del lavoro sia come mera rivendicazione salariale. Molti pensarono che fosse foraggiato da governi o correnti politiche e gruppi religiosi, anzitutto inglesi, beneficiari della sua azione destabilizzatrice della Santa Alleanza. Altre iniziative ispirate dal suo magistero ebbero esito tragico. Fu il caso della spedizione guidata dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera. Arrestati, i due vennero fucilati con i loro seguaci nel vallone di Rovito a Cosenza (1844), assistiti da un sacerdote patriota come loro.
Nel 1831 Mazzini aveva sfidato a prendere la guida dell’unificazione italiana il trentatreenne Carlo Alberto, appena asceso a re di Sardegna. Si dichiarò pronto a sacrificare l’opzione repubblicana all’obiettivo dell’unità dell’Italia. Altrettanto fece l’8 settembre 1847 con una lettera aperta a Pio IX. Nel 1848-49 cercò di sottrarre l’iniziativa politico-militare sia a Carlo Alberto, sceso in guerra contro l’Austria, sia al papa, il cui miglior ministro, Pellegrino Rossi, venne assassinato da pugnalata settaria.
Accorso a Roma, ove il 9 febbraio 1849 era stata proclamata la repubblica, Mazzini fece parte del triumvirato di governo con Aurelio Saffi e Carlo Armellini (29 marzo) e vi pubblicò “L’Italia del Popolo”. Si dimise il 30 giugno, quando la Repubblica stava crollando sotto l’offensiva delle truppe inviate da Luigi Napoleone Bonaparte, principe-presidente della repubblica e poi imperatore.
La sua cospirazione conobbe altre tragiche pagine, come l’arresto e l’impiccagione di affiliati, incluso don Enrico Napoleone Tazzoli (Mantova, 1852), e il clamoroso insuccesso dell’insurrezione milanese del 6 febbraio 1853. Ancora una volta dubitò di se stesso, ma poi riprese il cammino. Non solo si oppose con toni lugubri e di pessimo augurio alla partecipazione del regno di Sardegna alla guerra franco-anglo-turca contro la Russia in Crimea, che consentì a Cavour di proporre la “questione italiana” alle grandi potenze, ma organizzò un’insurrezione a Genova. Fu pertanto condannato a morte, mentre il tentativo di Carlo Pisacane, ferocemente antimonarchico, di incendiare il Mezzogiorno con una spedizione rivoluzionaria fallì miseramente (1857).
Schivato dalla Società nazionale, da Garibaldi e dalla maggior parte dei patrioti, nel 1859 Mazzini cospirò ai danni dell’alleanza franco-piemontese contro l’Austria, tentò di precedere i fiduciari del governo di Torino nelle terre poi annesse e nel 1860 cercò di dirottare l’impresa dei Mille di Garibaldi verso la proclamazione della repubblica, ma fallì. L’antico carbonaro, massone e patriota milanese, a lungo imprigionato allo Spielberg, Giorgio Pallavicino Trivulzio, presidente della Società Nazionale, il 3 ottobre 1860 gli intimò ruvidamente di lasciare Napoli perché “pur non volendolo, voi ci dividete”. Il 5 novembre 1860 Mazzini stilò a Caserta il programma dell’Associazione Unitaria Nazionale ma subito dopo lasciò l’Italia per Londra.
Nel 1863 tramite Demetrio Diamilla Muller ebbe contatti con Vittorio Emanuele II per affrettare l’annessione del Veneto all’Italia, ma aveva ormai scarso seguito e modesta influenza. La nascita dell’Internazionale socialista ne accentuò l’isolamento. L’irridente Karl Marx lo definiva “Teopompo”.L’ascesa militare della Prussia, la riorganizzazione dell’Impero d’Austria con il riconoscimento della corona di Ungheria e il declino di Napoleone quale promotore delle nazioni finirono per nuocere proprio al progetto mazziniano di un’Europa dei popoli. Dal 1864 l’influenza di Mazzini sulla sinistra democratica venne messa in discussione non solo da Garibaldi, che gli rimproverava di aver intralciato l’unità d’azione nelle fasi cruciali delle guerre per l’indipendenza, ma anche da Francesco Crispi, che nel 1864 proclamò alla Camera la sua adesione alle istituzioni: la monarchia univa mentre la repubblica avrebbe diviso. Nel 1866 Mazzini tentò ancora ripetutamente di ostacolare l’iniziativa regia, intralciando l’alleanza con la Prussia contro l’Austria e deprecando la conclusione della terza guerra d’indipendenza. L’insorgenza di Palermo non ne accrebbe il prestigio. In settembre pubblicò il manifesto dell’Alleanza repubblicana universale. La Camera annullò due volte la sua elezione a deputato per il collegio di Messina. Rieletto , rifiutò il seggio per non giurare ché fedeltà allo Statuto.
Il crepuscolo incombeva. Visitò a Lugano Carlo Cattaneo poco prima della morte (2 febbraio 1869).Tentò ancora di riorganizzare i repubblicani, sia con un convegno nella città svizzera sia con un incontro a Genova, presieduto dal genero di Garibaldi, Stefano Canzio (marzo 1870). All’inizio della guerra franco-germanica (luglio 1870) partì per la Sicilia, deciso a suscitarvi un’insurrezione che avrebbe dissuaso il governo da aiutare Napoleone III, ma venne arrestato prima ancora di sbarcare. Imprigionato a Gaeta, fu amnistiato per la seconda volta in breve tempo (14 ottobre) e instradato verso il confine con la Svizzera. Transitò per Roma ma non volle uscire dalla stazione per uno sguardo alla Città Eterna. Ormai era annessa al Regno, con Vittorio Emanuele II al Quirinale e Pio IX in Vaticano. Due monarchie, una costituzionale, l’altra assoluta. La Repubblica? A Pisa sostò nella casa di Enrichetta Nathan Rosselli. A Genova si raccolse in meditazione sulla tomba della madre. Poi raggiunse Lugano e da lì nuovamente Londra. Sorvegliato, non ricercato.
Nel febbraio 1871 tornò a Lugano per organizzare il Patto di fratellanza tra le società operaie italiane, ufficialmente avversato dal governo di Roma, che nondimeno lo preferiva alla propaganda dell’internazionale rivoluzionaria, perché comunque poneva in primo piano l’Italia e gli italiani.
Moriar in Patria…
Il 6 febbraio 1872 Mazzini raggiunse Pisa in incognito, ospite dei Nathan-Rosselli. Informato, il governo ne garantì il sereno trapasso in patria. Morì il 10 marzo, vegliato da Sarina Nathan, Felice Dagnino, Agostino Bertani, capofila dei radicali, e da Adriano Lemmi, il “banchiere della rivoluzione”, che lo avvolse nello scialle già posto su Carlo Cattaneo morente, a suggello della continuità ideale della sinistra democratica avviata alla conciliazione con la monarchia costituzionale.
Imbalsamata, la sua salma fu solennemente trasferita in treno al cimitero di Staglieno (Genova), salutata a ogni tappa da folle commosse, come narra Sergio Luzzatto nel magistrale La mummia della Repubblica, 1872-1946 (Rizzoli). Meta di pellegrinaggio, la sua tomba rivaleggiò con il garibaldino Scoglio di Quarto quale simbolo del patriottismo italiano. Il giorno della sua morte fu adottato per la celebrazione dei defunti da parte della massoneria italiana, poi capitanata da Lemmi, sodale di Crispi e di Giosue Carducci, che lo elevò a gran maestro dell’“idea”, senza precisare quale questa fosse. Mazzini tuttavia non fu mai iniziato né frequentò alcuna loggia per la radicale diversità tra il suo programma, tutto politico, e il metodo massonico, transnazionale e compatibile con ogni forma di Stato, monarchia compresa..
Nel 1871 aveva dato vita al settimanale “Roma del Popolo”, diretto da Giuseppe Petroni, per vent’anni prigioniero politico in Castel Sant’Angelo. Sin dal nome il giornale si contrapponeva alla Roma dei papi e a quella di Vittorio Emanuele II, che però anno dopo anno attrasse e coinvolse radicali e repubblicani transigenti nella costruzione dell’unità della patria e della concordia dei cittadini. Nel 1890, su proposta del governo presieduto da Francesco Crispi, il Parlamento deliberò l’erezione in Roma del monumento nazionale a Mazzini. La Nuova Italia lo riconosceva tra i suoi profeti, come spiegò alla Camera il ministro della pubblica istruzione, Michele Coppino, massone. Due anni dopo a Genova venne fondato il partito dei lavoratori italiani, poi partito socialista italiano, contrapposto al mazzinianesimo ma alimentato da società operaie di matrice mazziniana, come documentano le bandiere delle associazioni operaie. Dal canto suo il partito repubblicano italiano, nato nel 1897 con il motto “definirsi o sparire”, affiancò al pensiero di Mazzini quello di altri repubblicani, come Carlo Cattaneo, federalista anziché unitario.
Mazzini fu dunque “uomo universale”, come scrisse l’esoterista Carlo Gentile. Le sue idee si propagarono ovunque. La sua immagine ascetica suscitò ammirazione. Col tempo venne dimenticata la catena sanguinosa dei suoi errori politici, emblema della speranza di tempi migliori e della necessità di impegnarsi per realizzarli. Mostrò che le idee si affermano attraverso la comunicazione: lettere, circolari, manifesti, volantini, giornali, associazioni, leghe, partiti… e lo studio della storia. Religioso nell’età del materialismo, profeta di sentimenti contro l’aridità dell’affarismo, Mazzini fu il maggior romantico del Risorgimento ma nella costruzione della Nuova Italia venne eclissato da due passionali di buon senso, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Umberto I decretò l’erezione del monumento nazionale alla sua Persona, Vittorio Emanuele III, con l’Edizione dei suoi scritti, quello alle sue idee. La monarchia non ridusse Mazzini a un francobollo commemorativo come oggi accade. Lo volle carne della propria carne, Maestro della Terza Italia, come lo cantò Giosue Carducci e lo rievocò in Campidoglio Ernesto Nathan, sindaco di Roma, presente il Re. O gran bontà de li sovrani antichi…
Aldo A. Mola
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