Caro Direttore, irrompo nelle vacanze con il solito articolo settimanale, che completa il ragionamento avviato la settimana scorsa. Il 25 luglio 1943 il mitizzato Gran Consiglio del fascismo non decise nulla di….decisivo. Mirava a salvare il governo, se stesso e i pilastri del regime, gerarchi compresi, e la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Piaccia o meno fu il re a fare a svolta il 27: con scioglimento del Pnf, abolizione del Gran consiglio, “normalizzazione” della Milizia (che sostituì i fasci con le stellette) e pose le basi per rendere l’Italia più “presentabile”… In quel contesto operarono anche massoni oggi quasi sconosciuti come Domenico Maiocco, che diresse l’Inps di Firenze e vene condannato al confino di polizia perché “socialsta, antifascista e massone”. Cordialmente, Aldo A.Mola
Non fu né congiura né “colpo di Stato”
Fu Vittorio Emanuele III a mettere fine al “regime” fascista.
Il pomeriggio del 25 luglio 1943 il Re revocò il Cavaliere (della SS. Annunziata) Benito Mussolini da capo del governo, informandolo che lo sostituiva con il Maresciallo Pietro Badoglio. Fece quanto previsto dall’articolo 65 dello Statuto: “Il Re nomina e revoca i suoi ministri”. A differenza di quanto poi asserito dal duce e viene ripetuto da “scrittori” tendenziosi, il “cambio” non fu né complotto né “colpo di Stato”. Nella revoca e nella nomina, da tempo in preparazione e (a quanto pare) ignote solo a Mussolini che credeva di sapere tutto ma veniva intercettato anche mentre parlava con Claretta Petacci, il sovrano prese le precauzioni dettate dalle emergenze. Mussolini non era solo capo del governo ma anche duce del partito unico, affiancato dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Bisognava scongiurare il rischio di reazioni incomposte o il ritorno alla guerra civile strisciante del 1919-1922. Alleata della Germania, l’Italia aveva gran parte dei propri militari “oltre i confini”, come documenta Paolo Fonzi (ed. Le Monnier), mentre dall’arco alpino alla Sicilia i tedeschi (sia indivisionati, sia “sfusi”) erano numerosi, bene armati e motivati. Infine l’assalto anglo-americano al territorio nazionale, la netta superiorità dell’aviazione nemica e i suoi pesanti bombardamenti non solo su installazioni militari, dalle ripercussioni imprevedibili, costringeva alla resa e al tempo stesso esigeva un cambio del regime politico, atteso dagli Alleati, divergenti nelle strategie ma uniti nella decisione di mettere fuori combattimento l’“Italia fascista”.
La precipitazione
Lo sbarco e l’avanzata anglo-americana in Sicilia, come un tocco contro l’ampolla, fecero precipitare la soluzione da mesi in sospensione. Ma il sospeso era torbido e il soluto non risultò affatto cristallino.
Il 25 luglio l’unica certezza rimase la Corona, garante dello Stato. Non tutti però ebbero chiaro che “in principio era il Re…”. Le divisioni tra i partiti, appena albeggianti, e tra il loro insieme e la Corona risalivano all’intervento del 1915 nella Grande Guerra e ai suoi postumi. Risultarono insuperabili. Pesarono nelle ore decisive e proiettarono la loro ombra sui tre anni seguenti, sino alla soluzione finale: il referendum sulla forma dello Stato del 2-3 giugno 1946.
I senatori per un cambio di passo
La “narrazione” identifica la “caduta di Mussolini” (e/o del fascismo) con il voto del Gran consiglio del fascismo che poco dopo le 2 del mattino del 25 luglio a maggioranza “invitò il Governo a pregare la Maestà del Re affinché Egli voglia assumere con l’effettivo comando delle forze armate quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono” (v. Box). In realtà, benché enfatizzata dalla narrativa, più corriva a drammatizzare che a spiegare, la famosa “seduta” fu approdo di uno dei rivoli carsici che facevano emergere un’Italia alternativa al regime di partito unico. Un’iniziativa poco nota e tuttavia significativa fu la richiesta rivolta il 22 luglio da sessantatré senatori al presidente Giacomo Suardo di convocare la Camera Alta in seduta plenaria, “data la gravità della situazione”, nell’auspicio che “Governo e Popolo si stringano unanimi intorno alla sacra Persona della maestà del Re Imperatore nel proposito incrollabile di resistere ad ogni costo”. Tra i firmatari, “tutti presenti in Roma”, figurano esponenti della tradizione liberal-nazionale propria del Senato: Bollati, Mambretti, Umberto Ricci, Albertini, Della Gherardesca, Motta, Rotigliano, Costamagna, Gigante, Nomis di Cossilla, Cini, Clerici, Drago…Tutto conduce a ritenere che la richiesta sarebbe stata sottoscritta anche da Agnelli, Falck, Burgo, Pirelli, Volpi e da un lungo elenco di militari, diplomatici, magistrati, accademici e senatori “per censo” se si fossero trovati nella capitale. Vittorio Emanuele III attendeva sin dal lontano 1924 che una Camera gli fornisse l’appiglio per intervenire da Re costituzionale. Quei senatori finalmente si mossero. Però Mussolini, al quale il 24 luglio 1943 Suardo inoltrò la loro richiesta, si riservò di rispondere. Rimase inevasa. Affinché ne rimanesse traccia per la storia, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, nominato in successione a Suardo il 27 luglio, tre giorni dopo propose al “Cavaliere Duca Don Pietro Badoglio” di renderla pubblica. Il 3 agosto il Maresciallo rispose che “data la mutata situazione politica ed il tempo ormai trascorso” non era opportuno. Eppure sarebbe stato meglio farla conoscere all’opinione pubblica anziché condannarla alla polvere degli archivi, proprio per evidenziare l’incolmabile differenza tra il Senato e la Camera “dei fasci e delle corporazioni”.
La Massoneria ebbe un ruolo nelle trame del 25 luglio?
Una seconda trafila emerse in prossimità del 25 luglio. Ne fu esponente di spicco un personaggio pressoché sconosciuto, quasi misterioso e tuttavia per qualche momento protagonista: Domenico Maiocco (Cuorgnè, 13 giugno 1893-Roma, 17 maggio 1969). Laureato ventunenne in giurisprudenza a Torino, ufficiale nella Grande Guerra, Maiocco fu iniziato massone nella loggia “Vita Nova” di Alessandria il 2 maggio 1923, dopo che il Partito fascista, in combutta con i nazionalisti e per influenza di uno spretato, già aveva proclamato l’incompatibilità tra partito e logge. Impiegato all’Istituto nazionale della previdenza sociale, nel 1936 Maiocco fu condannato al confino di polizia come “socialista, antifascista e massone”. Dopo varie traversie, il 7 giugno 1943 fu eletto gran maestro della Massoneria Italiana Unificata (MIU) sorta a marzo con l’obiettivo di superare le antiche divisioni tra Grande Oriente e Gran Loggia d’Italia. Volle dimostrare ai “fratelli” anglo-americani che in Italia esisteva, sia pure a ranghi ridotti, un Ordine liberomuratòrio “regolare”, fedele alle istituzioni statuali, a cominciare dalla Corona, come sin dalle origini accadeva in Gran Bretagna e negli USA, i cui “padri fondatori” erano stati tutti massoni, a cominciare da George Washington. Quali “contatti” e quale ruolo effettivo ebbe la MIU? A contatto egli stesso con il principe Umberto di Savoia, Maiocco contava su “fratelli” leali nei confronti della monarchia e di esponenti del caleidoscopico mondo delle chiese evangeliche e riformate, già rilevanti nelle relazioni tra il Grande Oriente d’Italia dell’esilio (Arturo Di Pietro, Giuseppe Leti…) e massoni italo-americani (Franck Bellini, Charles Fama…), convinti che la rinascita delle logge avrebbe drasticamente ridimensionato il predominio della Chiesa cattolica dopo il Concordato dell’11 febbraio 1929. Lo pensava anche John H. Cowles che nel dopoguerra ottenne da Alcide De Gasperi la libertà della massoneria in Italia.
Tra i suoi referenti Maiocco aveva Tito Signorelli, pastore metodista, Dunstano Cancellieri, fondatore del Centro ermetico universale romano, e Placido Martini, poi assassinato con altri venti massoni alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Sulla vera o presunta iniziazione massonica di gerarchi e di prominenti dell’antifascismo e dell’affarismo molto ha scritto Paolo Cacace in “Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio” (ed. il Mulino). Studioso di grande talento, Cacace perlustra la tela dei “figli della Vedova” (come son detti i massoni), tra i quali, senza alcuna prova, include personaggi la cui appartenenza alle logge non è affatto documentata. È il caso di Ivanoe Bonomi, Marcello Soleri, Pietro Badoglio, Raffaele Mattioli (“molti sospetti, anche se non vi sono elementi probanti”) e persino di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, che bene conosceva Maiocco ma non aveva nulla da spartire con il massonismo. In “odore di loggia”, secondo Cacace, andrebbero contati anche Vittorio Emanuele Orlando, il ministro della Real Casa, Pietro d’Acquarone e il Re stesso: ma solo sulla base di sussurri e ammiccamenti. Fantasie. Cacace osserva che “prove inconfutabili allo stato attuale non esistono”. Insistervi, quindi, allontana dalle poche certezze acquisite. Tra queste vi è appunto Maiocco, lo “sconosciuto messaggero del colpo di Stato” che fece pervenire al Re l’ordine del giorno Grandi-Bottai, come ha scritto il suo biografo Antonino Zarcone (Annales, 2015).
Il suo ruolo è narrato da Ivanoe Bonomi nel “Diario di un anno: 2 giugno 1943-10 giugno 1944”. Ministro della Guerra nell’ultimo governo Giolitti (1920-1921), suo successore alla presidenza del Consiglio, rimasto ai margini della politica militante dopo la mancata rielezione nel 1924 e depennato dal novero dei “sorvegliati”, dalla seconda metà del 1942 Bonomi fu “nella fortunata condizione di poter assumere la funzione di promotore e di guida” dei partiti e dei movimenti antifascisti, i cui esponenti frequentavano la sua abitazione romana in Piazza della Libertà, n. 4. Non davano nell’occhio, eppure non erano illustri ignoti: i liberali Alessandro Casati, Alberto Bergamini (a contatto con il comunista Concetto Marchesi, biografato da Luciano Canfora, che a sua volta fa intravvedere come anche il celebre classicista sia stato forse raggiunto da un raggio della “Vera Luce”), i democratici Meuccio Ruini (sicuramente massone) e Pietro Tomasi della Torretta, i democristiani Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro, i socialisti Romita e Vernocchi. Quel comitato informale ipotizzò in primo tempo un governo militare di breve durata, da sostituire rapidamente con un esecutivo “politico”. Il 14 luglio Bonomi propose a Badoglio di assumere la presidenza di un governo di cui egli stesso sarebbe stato vicepresidente: preludio a un ministero “con uomini politici delle diverse correnti dell’antifascismo: liberali, democratici, cattolici, azionisti, comunisti e socialisti”. Bonomi avrebbe indicato i ministri politici, Badoglio quelli militari. Tutte ipotesi. Alle 17 del 24 luglio, proprio mentre iniziava la seduta del Gran consiglio, Bonomi (come scrive nel Diario) aprì la porta al “noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco, piemontese, che è in molta intimità con il quadrumviro De Vecchi”. Questi gli avrebbe detto che “nella mattinata Grandi e Federzoni lo avevano persuaso a firmare un ordine del giorno inteso a restituire al re tutte le sue prerogative, invitandolo nel contempo a farne uso per allontanare Mussolini. Il De Vecchi si sarebbe mostrato sicuro della vittoria ed avrebbe preconizzato, come conseguenza del voto, il ritiro di Mussolini e l’incarico ai presentatori dell’ordine del giorno di costituire un Governo nuovo”. Questo “avrebbe fatto appello alla concordia nazionale, invitando i maggiori uomini dell’opposizione a dare la loro collaborazione. Il De Vecchi non si sarebbe fatta alcuna illusione sulla mia risposta, pure desiderava di farmi sapere preventivamente che mi sarebbe stato rivolto un invito amichevole”. Bonomi rispose a Maiocco che quanto gli aveva riferito gli “pareva un romanzo”. L’ipotesi “di un governo Grandi-Federzoni-De Vecchi liquidatore del fascismo mussoliniano era sogno di menti oscurate”.
Esaminate le diverse prospettive del più che probabile governo Badoglio, il comitato interpartitico condivise il parere di De Gasperi: liquidato Mussolini diveniva necessario un accordo con gli anglo-americani. Associarsi al governo comportava di condividere il passivo della resa. Questa doveva gravare solo sul Re: capro espiatorio. Di lì la previsione di un “dissidio insanabile fra le aspirazioni del paese e la volontà della Corona”.
La “defascistizzazione” fu opera del Re e di Badoglio
Il 27 luglio Bonomi presiedette due riunioni dei sei partiti antifascisti che “agitò molti problemi senza prendere conclusioni concrete”, andò a colloquio con Badoglio e ne trasse “una buona impressione”. Il Maresciallo non aveva perso tempo. Come documentano i Verbali dei suoi governi, pubblicati a cura di Aldo G. Ricci, quello stesso giorno Badoglio fece il necessario, senza attendere suggerimenti. Con ogni evidenza i regi decreti-legge del 27 luglio, pubblicati nella “Gazzetta Ufficiale” del Regno il 2 agosto, erano frutto di lunga preparazione, precedente il 25 luglio. Vanno ricordati perché costituirono la svolta voluta dal Re e attuata dal governo da lui nominato per aprire il dialogo con gli anglo-americani: soppressione del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo, del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, divieto di fabbricazione e uso di bandiere e emblemi di associazioni e partiti politici, abrogazione delle norme contenenti limitazioni in dipendenza dello stato di celibe, controllo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, conferma dello stato di guerra, movimento di prefetti (collocamento a riposo o a disposizione di quelli nominati per meriti fascisti) e altre misure urgenti per i ministeri di Guerra, Marina e Aeronautica.
A due giorni dalla sua formazione, il governo Badoglio varò la “defascistizzazione”. Deliberò anche lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, istituita con la legge 19 gennaio1939, n. 129: una decisione apparentemente “dovuta” ma al tempo stesso incauta. Lo evidenziò lo schema di decreto legislativo preparato per la seduta del 9 settembre (che però non ebbe luogo) e non fu più ripresentato. Esso ammise che “la chiusura della XXX legislatura e la carenza di uno dei due rami del Parlamento” derivante dallo scioglimento della Camera elettiva “rendono impossibile, per ora, l’esercizio della funzione legislativa da parte del Senato e, d’altra parte, la ripresa dei lavori parlamentari non potrà non essere preceduta della emanazione di nuove norme intese a disciplinare anche la materia suddetta”. Insomma il governo avocò il potere di legiferare “per causa di guerra” anche in circostanze e per materie nelle quali “la causa di guerra non influisce menomamente”.
La sospensione del Parlamento sovraespose la Corona che affrontò la seconda e non meno impegnativa partita dell’estate 1943: uscire dal conflitto mentre, con il pretesto di soccorrerla, altre divisioni germaniche vi irrompevano in assetto di guerra. Ignara delle decisioni assunte dalle Nazioni Unite, l’Italia post-fascista riteneva di avviare trattative armistiziali e di avere diritto a riconoscimenti in misura del suo sostegno alla guerra contro la Germania, come prospettato dalla Dichiarazione di Quebec del 18 agosto 1943. Invece cozzò con l’imposizione della “resa senza condizioni”, decisa nella conferenza di Casablanca, il cui peso venne scaricato sulle spalle di Vittorio Emanuele III, come reiteratamente e rumorosamente chiesto dall’ala anti-monarchica più intransigente del comitato interpartitico presieduto da Bonomi. Cominciò ad affiorare l’intimazione di immediata abdicazione del sovrano. Divenne assordante dopo l’annuncio dell’“armistizio” e il trasferimento del Re e del governo da Roma a Brindisi il 9 settembre: vicende che meritano ricostruzione obiettiva, come quella in programma nel Convegno di Vicoforte su “L’estate del Re”, il prossimo 7 ottobre.
Aldo A. Mola
BOX
25 LUGLIO
QUEL CHE DICE E QUEL CHE NON DICE
L’ORDINE DEL GIORNO GRANDI-BOTTAI
Prima documentare, poi commentare. Il celebre ordine del giorno approvato da 19 Consiglieri sui 28 presenti alle 2.20 del 25 luglio 1943 recita: “Il Gran Consiglio del Fascismo […] esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza e la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia per la salvezza e l’onore della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
I gerarchi non proposero dunque la revoca e la sostituzione di Mussolini da capo del governo, né un nuovo governo, né la demolizione del regime di partito unico, né, meno ancora, l’armistizio separato. Proposero invece di “attribuire” alla Corona, al Gran consiglio (cioè a se stessi), al governo (così com’era: zeppo di mediocri esponenti del Partito fascista) e al parlamento (con la “Camera dei fasci” dal 1939 “nominati” anziché “eletti”) compiti e responsabilità che erano vigenti.
Inoltre proposero al Re di assumere l’effettivo comando delle forze armate, mai personalmente esercitato da alcun sovrano dal 1848 al 1940, quando esso fu preteso da Mussolini, capo del governo e titolare dei tre ministeri militari. In tal modo i gerarchi cercarono di scaricare sulla Corona la responsabilità della guerra, dell’incombente sconfitta e quindi della ormai inevitabile resa.
Si chiamarono fuori dal regime, ma non poterono uscire dalla sua storia.
Aldo A.Mola
DIDASCALIA: Pietro Badoglio (Grazzano Monferrato, poi Grazzano Badoglio, Asti, 28 settembre 1871-ivi, 1° novembre 1956). Senatore, marchese del Sabotino, duca di Addis Abeba, maresciallo d’Italia, capo di due governi (26 luglio 1943-22 aprile 1944 e 22 aprile-18 giugno 1944) è tra i protagonisti più discussi della storia. Gli subentrò Ivanoe Bonomi (due governi: 18 giugno-12 dicembre 1944 e 12 dicembre 1944-21 giugno 1945). Dopo Alfonso La Marmora, Federico Menabrea e Luigi Pelloux fu il quarto militare incaricato di presiedere il governo dello Stato d’Italia.
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