Non si può negare che in questi giorni siamo quotidianamente stimolati, informati, raccomandati, impietositi, minacciati, disturbati dai problemi dei ristoratori: bar, ristoranti, alberghi insomma HORECA (HOtel, REstaurant, CAfé per dirla come i nordici). Una categoria di lavoratori molto amati da tutti, me per primo: essendo molto “olandese” di formazione, non potrei vivere senza frequentare di tanto in tanto un pub; essendo anche italiano e un po’ francese: come non amare i ristoranti?
Ma una cosa è amare – una emozione – ben altro è ragionare.
Tutti sanno che il capitalismo è nato e si è sviluppato secondo il principio che il capitale è distinto dal lavoro e dalle materie prime, gli strumenti del lavoro. Ogni categoria, nel gioco delle parti, ha un costo e riceve una ricompensa.
Il capitale riceve una ricompensa in funzione di parametri molto variabili: essi possono permettere rapidi e consistenti guadagni (basta guardare la borsa degli ultimi mesi riguardo alle azioni high-tech) ma anche rapide e consistenti perdite. Il principio è semplice: più alto è il rischio più alto è il potenziale guadagno come la potenziale perdita.
Ora: noi italiani abbiamo una lunga storia di un capitalismo strano, quello che non solo privilegia l’impresa famigliare rispetto a quella aperta agli esterni, ma anche quello che risolve molti problemi ricorrendo agli aiuti dello Stato. Un esempio storico sono i denari pubblici spesi per sostenere l’innovazione nelle imprese che non sempre sono stati utilizzati con successo. Ma queste sono noccioline rispetto ad altri finanziamenti pubblici di imprese (semi)private in difficoltà. Quasi sempre la giustificazione è “salvare i posti di lavoro”. Un nobilissimo obiettivo, se fosse raggiunto solo grazie alla spesa pubblica!
In realtà questo obiettivo – salvare il lavoro – NON si raggiunge quasi mai con strumenti banali, come i finanziamenti pubblici senza controllo adeguato. Due esempi ovvii sono l’ILVA e Alitalia. In varie fasi il cittadino italiano (cioè noi tutti) ha pagato molto caro l’obiettivo mai raggiunto di salvare il lavoro. Ci sono altre centinaia di esempi: lascio agli amici economisti e simili il facile compito di elencare e giustificare meglio di me questa convinzione, che del resto mi pare largamente condivisa. Forse, oggi, questa opinione è condivisa anche da una nuova generazione dei sindacati che – a mio parere – cominciano a guardare al lavoro di domani da creare, e non solo a quello di oggi o di ieri da difendere ferocemente anche quando non è più difendibile.
Per decine di anni la politica italiana ha facilitato i profitti privati spesso intervenendo con fondi pubblici quando le imprese si sono trovate in difficoltà e lo hanno chiesto. Quando il rischio è favorevole, i privati raccolgono i profitti; quando è sfavorevole, il pubblico interviene “per salvare il lavoro”. Morale: siamo il Paese in cui lo Stato è fra i più poveri ed i privati (alcuni) sono fra i più ricchi: in Europa come nel mondo.
Ora, cosa c’entrano i ristoratori ed i ricercatori? Nulla, apparentemente. Invece mi sembra urgente denunciare questa nuova ondata di sussidi, doni, regali, facilitazioni … insomma di attenzioni a categorie di lavoratori – HORECA – che a mio parere monopolizzano l’attenzione sui temi della solidarietà con gli sfortunati del presente e del passato mentre abbiamo bisogno di concentrare l’attenzione sulla fiducia nel rilancio del futuro socioeconomico dell’Italia. E’ ovvio che non si vivrà senza bar, ristoranti, caffè, ma è possibile che tutta l’Italia da mesi dipenda solo da loro?
Naturalmente si ragiona in funzione di come si vede l’Italia del futuro. Se questo splendido Paese deve solo diventare una grande Venezia, meta turistica per tutto il mondo, allora facciamo attenzione: Francia e Spagna sono in competizione, e al momento vincono su vari fronti. Personalmente, non potrei vivere in una grande Venezia in attesa del turista affamato che compra il caffè, il pasto o il souvenir. Mi piacerebbe vivere in un Paese che segue le orme dei grandi del passato: da Fibonacci a Leonardo a Galileo, da Galvani a Volta ad Avogadro, da Meucci (che inventò il telefono anche se ingiustamente è Edison che ha avuto i riconoscimenti) alla Montessori a Marconi a Fermi (che ha dovuto emigrare, come molti altri). Insomma, l’Italia della ricerca e dell’innovazione.
Vorrei che l’Italia avesse questa ambizione OGGI e DOMANI, non per orgoglio storico, ma per motivi ed interessi ben più banali, egoistici. Sono fortemente convinto che la ricerca (ed il conseguente sfruttamento dei suoi risultati, cioè l’innovazione) siano le sole ragioni per le quali alcune società fioriranno ed altre saranno in declino: economico, sociale, culturale, ahimè anche sanitario. Questa volta lo abbiamo capito tutti: senza ricerca biomedica si può morire perché non tutto si compera sempre e comunque. Negli altri campi succede esattamente lo stesso: la ricerca non si compera sempre e comunque, è indispensabile avere la forza di farla, controllarla e sfruttarla in collaborazione e competizione globale.
Detto questo, vorrei che per ogni giusto euro speso per solidarietà con HORECA ce ne fosse uno speso per sostenere i ricercatori ed il loro lavoro. Capisco benissimo che non sia una categoria molto popolare (Ricercatori? Quando avete trovato, fatemi sapere che compero le vostre azioni!) ma a differenza di HORECA sono professioni durissime, che richiedono anni di sacrifici e che danno risultati solo eccezionalmente e con tempi medio-lunghi. Insomma, professioni da missionari; i principi sono gli stessi: molto investimento personale, poco guadagno ed anni di attesa per qualcosa che forse, nel migliore dei casi, servirà ad altri. Il contrario di altre attività. Grandi talenti, alto investimento e rischio, poco ritorno atteso; al massimo, quando va bene, un modesto stipendio quasi costante dai 30 ai 70 anni.
Agli stessi amici economisti di cui sopra pongo allora la seguente semplice domanda: quale è il rapporto fra investimento e ritorno (denaro, sviluppo, occupazione) in HORECA rispetto a quello in Ricerca e Sviluppo (R&D)? Giusto parlare di miliardi per HORECA e simili, ma possibile che quando si parla di ricerca al massimo si sentano cifre molte volte inferiori? Possibile che si continui a sostenere ferocemente chi ha perso negli ultimi mesi mentre si dimentichi integralmente le migliaia di intellettuali emigrati negli ultimi anni (e le decine di migliaia di potenziali giovani ricercatori rimasti, spesso senza prospettive) perché in Italia, tutti lo sanno, non si vive di ricerca scientifica?
Finalmente: per ogni € perso da HORECA probabilmente ce n’è uno vinto da altri (grande distribuzione, high-tech, mi aiutino gli economisti …); come è possibile che questi aiuti siano a carico integrale della collettività? Non capisco, scusate: ma per gli eventi imprevisti e rari, non esistono anche le assicurazioni – erano state inventate per questo, se avevo capito bene-?
Certamente, l’1,3% di 1600 Miliardi fa 21 miliardi, quello che il settore pubblico + il settore privato spendono in R&D in Italia (https://it.wikipedia.org/wiki/Ricerca_e_sviluppo). Con la metà di una “manovrina” oramai trimestrale si raddoppierebbe l’investimento annuale in ricerca (2,6%), allineandoci con alcuni Paesi europei. Con il doppio (3,9%) saremmo ai livelli di Svezia, Giappone, ed altri virtuosi nel settore come Israele. Ecco alcuni dati selezionati (Wikipedia): Israele 4.53; Giappone 3.39; Corea del Sud 3.23; Germania 2.53 … Italia 1.31 (pubblico e privato insieme).
Insomma: per una volta, invece di premiare con sussidi chi ha investito in attività per varie ragioni storicamente a rischio (ILVA, ALITALIA, HORECA) possiamo una volta investire in attività che sicuramente sono ad alto valore aggiunto sia per l’economia che per l’occupazione? Nei giorni della redazione del “Next Generation EU” mi piacerebbe vedere riconosciuta la ricerca, non solo simbolicamente come fanno sempre tutti nei loro interessanti discorsi, ma concretamente con quote di investimento significative.
Stefano A. Cerri
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Stefano A. CERRI (Parma, 1947) è Professore Emerito di Informatica dell’Un. di Montpellier; Distinguished Fellow della Fondazione Bruno Kessler, Trento e Vice Presidente Ricerca e Sviluppo della Società Didael KTS (per maggiori dettagli sul CV, vedi: https://www.didaelkts.it/stefano-a-cerri/ ). Mail: sacerri47@gmail.com
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