Non si sono ancora spenti gli echi delle pretestuose e strumentali polemiche legate al concerto di apertura delle commemorazioni del centenario della morte di Giacomo Puccini, polemiche che nulla hanno a che vedere con la sua musica o a come sia stata eseguita, che, poco distante, proprio laddove le sue spoglie riposano e dove il compositore lucchese ha vissuto i suoi momenti più belli, si è perpetrato un incredibile scempio di una delle sue più belle e famose opere: Bohème.
Che sia stato proprio quell’Istituzione che dovrebbe difendere e promuoverne l’immagine, ci sembra ancora più incomprensibile: il Festival Puccini, a lui dedicato, in quella Torre del Lago da lui amorevolmente descritta come “Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, vas spirituale, reggia … (..) Paese tranquillo, con macchie splendide fino al mare, popolate di daini, cignali, lepri, conigli fagiani beccacce, merli, fringuelli. Padule immenso. tramonti lussuriosi e straordinari. Aria maccherona d’estate, splendida primavera e autunno. Vento dominante, di estate il maestrale, d’inverno il libeccio. Oltre i 120 abitanti sopradetti, canali navigabili, capanne di falasco, ci sono diverse folaghe, fischioni, tuffetti e mestoloni…” ha aperto le porte ad uno dei peggiori allestimenti di questa stupenda pagina della produzione pucciniana, dandogli addirittura il privilegio di aprire questa 69° edizione.
Il sottosegretario Vittorio Sgarbi, dopo aver detto che avrebbe fatto “qualunque azione per impedire che venisse rappresentata una Bohème in cui la scenografia rappresentasse il ’68”, ha precisato come la Bohème di Gayral non sia “arte ma un comizio politico per criticare il Governo” aggiungendo: “…La regia della Bohème dev’essere lo strumento per criticare il Governo e le istituzioni che finanziano il Festival e le celebrazioni Pucciniane? Per il ’68 io attendo altra musica, non quella di Puccini che dovrebbe essere lasciato in pace”.
Alberto Veronesi, Presidente del Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane, aveva sottolineato come “I personaggi della Bohème di Puccini non sono dei contestatori comunisti che rappresentano solo una parte dell’umanità, ma comunicano sentimenti e valori universali che appartengono a tutti noi. Non è una questione politica ma solo di attribuzione di valori a Puccini che lui non intendeva mettere in scena nella Bohème” decidendo poi di dirigere con una benda sugli occhi: “Non voglio vedere queste scene”, ha urlato a quella minoritaria parte di pubblico che lo contestava.
In effetti ciò che abbiamo visto su quel palco è stato davvero abominevole. Eppure credevamo di essere abituati a mise en scène di dubbio gusto in tanti anni di presenze nei teatri italiani. Ma qui si è andati davvero oltre ogni limite della decenza! E, si guardi bene, il ’68 e le sue derive politiche, sono davvero l’ultima delle cause di questa critica, seppure libretto e scelta musicale di Puccini sono lontanissimi da quel contesto storico-politico nel quale si sono trovati, certamente loro malgrado vista la libertà concessa ai registi di “disfare” arbitrariamente il lavoro degli altri, in questa infausta serata.
Nella mente delirante del regista francese Christophe Gayral, Rodolfo e Mimì finiscono a letto alla fine del primo atto, Benoit viene accompagnato da una selva di bambini, Alcindoro entra in scena in sedia a rotelle, Musetta è una diva di Hollywood che nella sua bellissima romanza è accompagnata da camerieri- boys degni del peggior cabaret. Non possono mancare, per un regista “politicamente impegnato” come Gayral, i cortei dei reazionari, ovviamente vestiti come suffragette inglesi, con striscioni recanti, in bella vista, i temi di Dio, della Patria e della Famiglia. La Barriera d’Enfer e l’osteria del terzo atto diventano uno squallido locale notturno (dove è ovviamente incomprensibile la presenza degli spazzini e delle lattivendole e contadine che propongono “burro e cacio” “Polli e uova”).
Ma l’apologia dell’assurdo arriva nell’ultimo atto, alla morte di Mimì.
Un momento che Puccini cesella in modo eccezionale, dove il dramma della morte, inattesa e sconosciuta nei pensieri di quei ragazzi “spensierati”, diviene oggetto di profonda riflessione personale nel chiuso di quella stanza che ha raccolto ben altri momenti della loro vita.
Dopo un primo “trauma” nel vedere che, anziché confrontarsi col dolore, i protagonisti della storia si muniscono di cartelli, la stanza viene invasa da illustri sconosciuti anch’essi muniti di cartelli e di pugni al cielo…
“Siamo all’ultima scena…” commenta ironicamente Schaunard nel secondo atto: il nostro, invece è una ben più triste considerazione di una violenza inutile, gratuita ad un’opera che non può essere, o non dovrebbe essere possibile, manipolata a piacimento.
Ma del resto, finché ci saranno teatri disponibili ad aprire le porte a questi obbrobri, autorizzando egocentrici registi ad inventarsi finali a sorpresa e scene ad effetto, le cose continueranno così, educando il pubblico più giovane al fatto che alterare il senso di un’opera “non è peccato” anzi è utile per attualizzarla e renderla maggiormente appetibile!
Forse boicottando i teatri che propongono queste cose si potrebbe far capire loro che i soldi pubblici devono essere spesi meglio, ma da troppo tempo il pubblico, anche quello più preparato, si è rassegnato a subire simili oltraggi.
Magari il rifiuto da parte di Alberto Veronesi, che all’interno del Festival Pucciniano è stato per anni direttore artistico e musicale, di dirigere quest’opera, anche in virtù del suo ruolo di Presidente del Comitato, avrebbe potuto dare un segnale forte di presa di distanza da simili scelte. Ma probabilmente avrebbero trovato il modo di polemizzare contro di lui così come hanno tentato di fare per quella benda, certamente simbolica ma comunque significativa.
Ma i cantanti? E l’Orchestra?
Dentro quell’assurda messa in scena, si sono esibite delle belle voci che sono state fagocitate in quel pot-pourri di assurdità. Per fortuna il pubblico ha saputo distinguere cantanti da regia e attribuire loro i giusti meriti premiandoli con calorosi e meritati applausi durante e al termine della recita. Davvero bravi tutti, generosi e spontanei, capaci di andare oltre i gesti e le posture imposte dal regista per raccontare, almeno vocalmente, quello che Puccini e i suoi librettisti, Illica e Giacosa, volevano davvero raccontare.
Claudia Pavone, una delicata Mimì pur dentro un “corpo” di una disinvolta sessantottina, ha cantato davvero bene regalando momenti di intensa passione; analogamente Oreste Cosimo, un grande Rodolfo vocalmente mai sopra le righe, generoso e vitale. Accanto a loro, Alessandro Luongo un Marcello davvero grande, Federica Guida, una Musetta convincente pur in “vesti” improprie e fuori luogo, Sergio Bologna, uno scoppiettante Schaunard, e Antonio Di Matteo, un compito Colline.
Alessandro Ceccarini ha avuto l’ingrato compito di vestire i panni di un Alcindoro in sedia a rotelle fatto oggetto di scherno da parte di Musetta; gli ha dato buona voce ed anima, per quel che ha potuto; a sostituire Angelo Nardinocchi nel ruolo di Benoit è stato chiamato Francesco Auriemma, mentre a Marco Montagna il compito di impersonare Parpignol senza il suo carretto di giocattoli, vestito da Babbo Natale e con tanti palloncini bianchi e blu.
Anche se bendato, Alberto Veronesi ha ben guidato l’Orchestra del Festival che ci ha regalato le emozioni di quella partitura indimenticabile fatta di discrete suggestioni e di tanto amore. Buona anche la prova del coro del festival, diretto da Roberto Ardigò, e del coro delle Voci Bianche diretto da Viviana Apicella.
Per la cronaca, le scene sono di Christophe Ouvard, i costumi di Tiziano Musetti (da un’idea di Edoardo Russo), il disegno luci di Peter Van Praet.
Stefano Mecenate
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